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TRAINING AUTOGENO

 

Origini del Training Autogeno

 

Il training autogeno fa parte delle tecniche di rilassamento e in particolare è una tecnica di auto-rilassamento. L’inventore del training autogeno è il dottor Schultz (1884-1970), neurologo tedesco. Il dottor Schultz effettuò studi sull’ipnosi e sulla medicina psicosomatica, per poi decidere di fondare un suo metodo di lavoro. Egli infatti riteneva che l’ipnosi avesse un fondamentale problema: la passività del soggetto. Per questo decise di fondare una sua teoria olistica, chiamata “teoria bionomica”, con un metodo (l’autogenia) e un suo strumento (il training autogeno).

 

Fondamento del Training Autogeno: la teoria bionomica

 

La teoria bionomica sostiene che esistono delle “leggi di vita” che regolano l’esistenza psico-fisica delle persone. Quando una persona si allontana dal proprio equilibrio bionomico, allora insorgono problemi fisici e disturbi emotivo-relazionali.

L’unico modo per superare questi problemi è ripristinare l’armonia tra mente e corpo. Tale armonia va cercata in base alle proprie leggi di vita e non in base a dogmi socio-culturali.

Dunque il dottor Schultz ha strutturato un vero e proprio strumento finalizzato al ripristino dell’equilibrio: il training autogeno.

 

Definizione di Training Autogeno

 

Il training autogeno viene definito dal suo inventore “metodo di autodistensione da concentrazione psichica" (“Quaderno di esercizi per il Training Autogeno” J.H. Schultz, 1932).

Cosa significa? Significa che il training autogeno è un procedimento che porta la persona a rilassarsi, attraverso la focalizzazione della propria attenzione su stimoli predefiniti.

Il nome di questa tecnica già ci dice le sue caratteristiche. La parola “training” indica che può essere appresa attraverso un allenamento. “Autogeno” significa che lo stato di calma viene generato dentro la persona dalla persona stessa.

 

Training Autogeno: la pratica

 

Inizialmente la tecnica deve essere insegnata da un operatore formato. L’operatore garantisce infatti che la tecnica possa essere appresa correttamente e aiuta la persona nel percorso di apprendimento.

Innanzitutto per effettuare il rilassamento è opportuno curare la posizione del corpo.

Tre sono le posizioni adeguate: sdraiato supino, seduto su una poltrona con braccioli e poggia testa, seduto su una sedia.

Inizialmente l’insegnante condurrà il rilassamento attraverso la sua voce.

 

Il training autogeno comincia con un esercizio preparatorio: induzione della calma. Si struttura poi in sei esercizi che portano la persona a esperire uno stato di rilassamento sempre più profondo.

Il rilassamento passa attraverso diversi livelli corporei e psichici: passando dalla distensione dei muscoli volontari, per arrivare alla distensione della mente.

 

Training Autogeno: i corsi

 

Il metodo viene generalmente insegnato in gruppo, ma può essere anche studiato in sedute individuali, con un operatore formato.

È consigliabile apprendere la tecnica da un operatore e non attraverso corsi registrati, per diversi motivi. Innanzitutto il rilassamento può portare a delle resistenze, fisiche e psicologiche, che l’operatore può aiutare a comprendere e a sciogliere. Inoltre lo spazio del corso garantisce un luogo di scambio e arricchimento dell’esperienza di rilassamento. Infine l’operatore ha l’obiettivo di portare la persona ad essere autonoma nell’utilizzo della tecnica, senza il supporto di registrazioni audio o video. Infatti dopo un primo momento di passaggio di conoscenze attraverso un insegnante, indispensabile per poter chiarire dubbi e spiegare ciò che avviene, ognuno può diventare autonomo nell’utilizzo del metodo.

 

 

Possibili difficoltà nell’esercitarsi nel Training Autogeno

 

Il training autogeno è una tecnica di rilassamento che parte dalla mente per arrivare al corpo. Per questo motivo inizialmente può essere difficoltoso sperimentarsi.

Si possono quindi provare degli esercizi preparatori, come ad esempio il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson semplificato. Questo esercizio parte dal corpo e arriva alla mente: si eseguono successioni di contrazioni e rilassamenti di muscoli volontari. Questa tecnica è utile per diventare consapevoli della differenza tra contrazione e distensione e prevede una specifica coordinazione col respiro.

In generale il respiro è fondamentale in ogni tecnica di rilassamento. Imparare a essere consapevoli del proprio respiro, riuscire a effettuare una respirazione profonda e lenta, influisce su diversi aspetti della nostra vita.

 

A volte il nostro corpo o la nostra mente faticano a lasciarsi andare nel rilassamento, perchè è qualcosa a cui non siamo abituati. Anche tenere gli occhi chiusi in mezzo a un gruppo di persone o rimanere fermi per diversi minuti può risultare difficile.

Le resistenze al rilassamento vengono definite in questo contesto come “scariche autogene”. Le “scariche autogone” possono consistere in scariche motorie (spasmi muscolari), uditive (acutizzazione dei rumori), vestibolari (vertigini), affettivi (pianto).

Tali esperienze sono connesse alla presenza di un sovraccarico di tensione che comincia a sciogliersi.

Se le provate, vuol dire che state lavorando bene.

 

Sono pochissime le condizioni per cui è meglio evitare di utilizzare il training autogeno: persone con funzionamento psicotico, cioè con esperienze di allucinazione, delirio, derealizzazione e depersonalizzazione.

 

Perchè scegliere il training autogeno?

 

Esistono diverse tipologie di tecniche di rilassamento e ognuna punta allo stesso obiettivo con modalità differenti.

Il training autogeno opera a livello fisico, fisiologico e psicologico.

 

A livello psicologico si osservano i seguenti benefici:

-   aumenta la concentrazione e la memoria

-   riduce i vissuti di ansia e di stress

-   produce uno smorzamento della risonanza emotiva degli eventi esterni (autoregolazione emotiva)

-   favorisce l’autodeterminazione

-   favorisce l’introspezione

 

A livello fisico e fisiologico è stato dimostrato che il training:

-   favorisce il recupero di energie fisiche

-   aiuta l’ingresso nel sonno

-   diminuisce la percezione del dolore

 

Infine riduce gli effetti dei disturbi da somatizzazione, cioè quei sintomi fisici connessi e dipendenti dallo stato psicologico della persona.

Nel complesso il training autogeno è quindi un modo per poter migliorare la qualità della vita in tanti aspetti e aree di funzionamento.

 

Campi di applicazione del training autogeno

 

Grazie ai suoi molteplici effetti positivi e alla quasi mancanza di controindicazioni, è stato utilizzato in campi differenti, per diverse categorie e scopi:

-   come preparazione al parto

-   per la diminuzione e la gestione dello stress lavoro correlato

-   per la riduzione di sintomi psico-somatici, soprattutto se legati all’ansia

-   per il miglioramento delle prestazioni sportive

-   per l’aumento del rendimento nello studio

-   per diminuire e gestire i disturbi del sonno

 

Ritengo però che la sua potenza sia soprattutto legata al carattere autonomo e auto-determinante: una volta appresa, la tecnica potrà essere esercitata in diversi contesti, adattata alle necessità di ognuno, utilizzata in base ai bisogni individuali.

Con questo non voglio dire che sia uno strumento magico, risolutore di ogni problema, ma è un metodo duttile e semplice, che si adatta perfettamente allo stile di vita contemporaneo per la sua brevità e efficacia.

 

 

Consigli bibliografici relativi al Training Autogeno

 

- “Quaderno di esercizi per il Training Autogeno” J.H. Schultz a cura di D. Langen, Ed. Feltrinelli

- “Manuale di Training Autogeno” Bernt H. Hoffmann Ed. Astrolabio

- “Il Training autogeno – il più diffuso metodo di rilassamento” H. Lindemann Ed. Tecniche Nuove

 

 

 

dott.ssa Michela Beatrice Piazza

Autore: Andrea Veronesi 10 nov, 2021
Che cosa è la disgrafia ? “Verba volant scripta manent”. Questa è la caratteristica principale della scrittura: rimane nel tempo. La capacità di scrivere è una competenza complessa che si acquisisce grazie all’interazione del sistema cognitivo, il sistema emotivo, la coordinazione neuromotoria, il sistema linguistico ed è strettamente legata ad aspetti socio-culturali. La competenza della scrittura può essere divisa in: -abilità di “cifratura” (scrittura sotto dettatura) che richiede la capacità di trasformare il suono che si sente in segni grafici. -abilità di composizione (scrittura spontanea) che è la capacità di esprimere un pensiero o una informazione in modo autonomo. L’apprendimento della scrittura, intesa come automatizzazione dei processi per una scrittura adeguata, si consolida al termine della classe seconda primaria. Ma la completa automatizzazione della conversione del fonema (la parola detta) in grafema (la parola scritta) avviene con tempi più lunghi e con differenze significative tra un bambino e l’altro. Al termine della terza classe primaria l’apprendimento della scrittura in modo sufficientemente consolidato dovrebbe essere acquisito. E’ in questo momento che può essere avviata una valutazione per una eventuale difficoltà di scrittura. Le difficoltà di scrittura si dividono in : - Disgrafia - Disortografia La parola “Disgrafia” indica la difficoltà, per un individuo, di riprodurre i segni alfabetici e numerici. E’ caratterizzata dalla realizzazione grafica di lettere e numeri usando segni inadeguati, da irregolarità e scarsa precisione delle parole e da interferenze nella leggibilità della produzione scritta. In parole povere: una scrittura illeggibile (spesso anche da parte di chi scrive). Ma si parla di disgrafia anche quando, pur essendo la scrittura qualitativamente accettabile, questa risulta con una fluenza non adeguata; cioè la scrittura è molto più lenta della velocità della media dei pari età. Per la valutazione della scrittura, si pone anche un problema in relazione all’uso dello stampato (maiuscolo o minuscolo) e/o al corsivo, dal momento che oggi, in molte scuole si consente agli allievi di utilizzare il carattere che preferiscono e quindi, in sede di valutazione, non sempre è facile capire se la fluenza è adeguata oppure no, poiché spesso un bambino può risultare veloce con l’uso di un carattere e lento con l’uso di un altro. In generale, un segnale di possibile disgrafia è il fatto che il bambino, non vuole mai scrivere, scrive molto adagio, si stanca facilmente quando scrive, resta sempre indietro quando scrive sotto dettatura. Oggi che possiamo usufruire del PC e della videoscrittura, chi ha problemi di disgrafia, non deve preoccuparsi. Tuttavia, a scuola, chi scrive molto male e/o molto adagio si trova certamente in grosse difficoltà: rimane indietro, ci mette più tempo degli altri a fare le verifiche o i compiti a casa, si stanca prima degli altri. Scrivere male o molto adagio può andare a influire sulla correttezza ortografica. Scrivere può diventare un “tormento”! La penna spesso è impugnata male o malissimo: con impugnatura a pugno, con la penna tra medio e anulare e il pollice sovrapposto, ecc.. In questo modo si deve stringere di più la penna o la matita: il braccio e la mano si stancano presto e sono doloranti. Non tutti i bambini che hanno problemi di scrittura sono disgrafici: in molti casi non si è intervenuto a correggere opportunamente la prensione o la postura del bambino (in special modo alla scuola materna). Migliorare è possibile, ma è necessario capire il tipo di difficoltà e capire che cosa fare per aiutare il bambino che scrive male: l’esercizio è sempre utile, ma deve essere l’esercizio giusto, adatto alla specifica difficoltà. In tutti casi, soprattutto se l’impugnatura non è buona, è meglio far utilizzare una penna dal corpo “grosso” che una dal corpo sottile, perché quest’ultima richiede una stretta maggiore e quindi fa affaticare più facilmente. Qual è la corretta impugnatura della penna o della matita? E’ quella che prevede la penna tenuta con i polpastrelli del pollice, indice e medio. Questa prensione è l’ideale per scrivere sia in corsivo che in stampato, ma soprattutto in corsivo. Infatti il corsivo, inventato per una scrittura più veloce, prevede che si muovano prevalentemente le tre dita che impugnano la penna, mentre il mignolo e l’anulare fanno da supporto alla mano e si appoggiano sul foglio. Il corsivo è una scrittura più fluida dello stampato perché prevede una rotazione del polso così che non si debba staccare la penna dal foglio, per scrivere la parola, come invece si deve fare per lo stampato. Lo stampato maiuscolo è invece il carattere più semplice da utilizzare perché le lettere sono composte prevalentemente da aste (verticali, orizzontali, oblique). Far abituare il bambino ad utilizzare una corretta impugnatura non è difficile se questo avviene negli anni dai 3 ai 5 anni quando ha una età in cui può passare da una prensione “elementare” a pugno ad una più raffinata. Che cosa si deve guardare per valutare la disgrafia? 1. La velocità con cui si scrive sotto dettatura e copiando un testo. 2. La grandezza della scrittura (in terza 3/4 mm). 3. L’allineamento al margine sinistro. 4. L’andamento altalenante della linea di scrittura. 5. Lo spazio insufficiente tra le parole. 6. Lettere con angoli acuti o collegamenti allungati. 7. Collegamenti interrotti tra le lettere. 8. Collisione tra le lettere (una lettera sopra l’altra). 9. La grandezza irregolare delle lettere. 10. Poca o nessuna differenza di altezza tra lettere con estensione (es.: b, d, f, g, ecc.) e lettere senza estensione (es.: a, c, e, i, m, n, ecc.). 11. Lettere atipiche: quelle lettere i cui particolari non fanno parte del sistema di costruzione delle lettere. 12. Forme ambigue delle lettere. 13. Lettere ritoccate o ricalcate. 14. Traccia instabile (quando la scrittura presenta incertezze, esitazioni e tremolii irregolari).
Autore: Andrea Veronesi 29 set, 2021
L’ ADHD negli adulti Che cosa sappiamo dell’ADHD negli adulti? Sappiamo che certamente si tratta di una condizione clinica ampiamente sottostimata, perché molto spesso si confonde il sintomo con aspetti legati al “carattere” dell’individuo. Così elementi che caratterizzano l’ADHD nell’adulto come disattenzione costante, impulsività eccessiva, disorganizzazione, sensazione di noia e insoddisfazione sono visti come caratteristiche (negative)di una persona, e si pensa che sia colpa sua. Esistono molti adulti che potrebbero aver avuto la vita condizionata negativamente dall’ ADHD, ma non hanno mai ricevuto una diagnosi. Gli studiosi oggi ritengono che l’ADHD sia una problematica neurobiologica, pertanto permanente nell’individuo, qualche cosa che lo caratterizza, quindi i sintomi dell’ ADHD possono proseguire per l’intero ciclo di vita, dall’infanzia all’età adulta. Secondo studi epidemiologici internazionali, l’ADHD colpisce tra il 3% ed il 4,5% della popolazione adulta. Inoltre nell’età adulta si presentano, anche nuovi sintomi , che spesso rimandano a problemi psico-sociali. Le caratteristiche che più frequentemente si presentano nell’adulto sono: – disattenzione cronica in diverse forme (distraibilità, scarsa capacità nel prestare e mantenere a lungo l’attenzione e nel portare a termine i compiti, propensione ad evitare impegni che richiedono uno sforzo mentale protratto nel tempo, incapacità di mettere a fuoco la tematica principale, dimenticanze ecc..); – impulsività comportamentale e verbale (agitazione, difficoltà a stare seduto, fare le cose senza pensare alle conseguenze, non rispettare i turni di parola all’interno di un dialogo, essere logorroici ecc…); – disorganizzazione (caos e casualità nella pianificazione di pensiero e azione); – scarse capacità sociali e di mentalizzazione; – sensazione di noia e difficoltà ad essere soddisfatti; – frustrazione immediata di fronte a circostanze di ritardo; – labilità emotiva. Inoltre si possono sviluppare altre forme di disagio: scarso rendimento scolastico, un eccesso di separazioni e divorzi, maggiori probabilità di difficoltà lavorative, sfavorevoli condizioni socioeconomiche, maggior rischio di andare incontro sia ad incidenti stradali che ad eventi traumatici. Sono anche presenti condotte suicidarie e tassi particolarmente elevati di comorbidità con altri disturbi della sfera mentale ed emotiva. Particolarmente problematica è l’associazione con i disturbi della dipendenza da alcol e sostanze. Non prenderemo, qui, in considerazione come avviene la valutazione diagnostica, ma ci soffermeremo solo sul trattamento, cioè su quel che si può fare per aiutare un adulto al quale viene diagnosticato un deficit di attenzione e/o iperattività-impulsività. Il trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, come nell’infanzia, dovrebbe prevedere un approccio che unisca insieme interventi diversi, in modo da rendere il trattamento stesso più efficace possibile e una prognosi più favorevole. Questo tipo di trattamento multimodale comprende: – La farmacoterapia per i disturbi dell’ ADHD e i sintomi in comorbidità (ma solo per i casi più gravi e problematici); – Psicoeducazione sui sintomi dell’ADHD e quelli in comorbidità; – Psicoterapia cognitivo-comportamentale. La psicoeducazione è un momento importante nel trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, in quanto fornisce al paziente una serie di informazioni che lo possono aiutare a comprendere più approfonditamente la sua condizione e ad affrontare le difficoltà causate dal disturbo. Spesso la psicoeducazione ha buoni effetti anche sulle relazioni familiari, in quanto queste informazioni vengono condivise tra i membri della famiglia, e anch’essi diventano consapevoli e riescono a dare una spiegazione dei comportamenti e sintomi del paziente. Infine è necessario avviare un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale, dal momento che i pazienti sviluppano ulteriori problematiche a seguito del disturbo (credenze negative, bassa autostima, comportamenti di evitamento e disturbi dell’umore) ed esiste un alto grado di comorbilità con i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore, il controllo degli impulsi e l’abuso di sostanze. In generale le tecniche utilizzate sono: cognitive (ristrutturazione cognitiva, problem solving, gestione della rabbia, riduzione procrastinazione, ecc…) ed emotive (gestione e regolazione delle emozioni, tecniche di controllo degli impulsi e dell’autoregolazione, aumento autostima, ecc…). Molto utilizzata è la meditazione Mindfulness.
Autore: Dott.ssa Maria Grazia Nichetti 16 giu, 2021
C’è una linea sottile che separa i comportamenti correttivi dei genitori dal bullismo nei confronti dei figli. Certe volte gli adulti si trovano in condizioni di debolezza - per ragioni finanziarie, professionali o interpersonali - che li portano a utilizzare la loro autorità in modo eccessivo e, dunque, distorto. Ronit Baras, educatrice, life coach ed esperta di tematiche familiari, (www.ronitbaras.com), riporta come qualche volta la disciplina venga usata in modo distorto dagli adulti per far fare, ai ragazzi, quello che vuole l’adulto stesso. Il campionario dei comportamenti “no” L’elenco delle modalità educative non adeguate si svolge su due livelli : fisico ed emozionale. Al primo appartengono tutti quei comportamenti violenti come picchiare, costringere con la forza, usare punizioni corporali. Il secondo livello abbraccia tutta l’area psicologica sociale “Sono un esempio tutti quegli atteggiamenti aggressivi e passivo-aggressivi che tendono a generare sottomissione e paura: minacciare, insultare, urlare, umiliare specialmente in pubblico, fare commenti sarcastici o negativi sulle capacità, le qualità e gli interessi dei figli, ma anche criticare, ignorare e trascurare” (Ronit Baras). Alcune volte, però, i genitori non si accorgono di “bullizzare”, in quanto i comportamenti usati rientrano in quelli considerati come dinamiche relazionali come per esempio: “Quante volte ti devo dire…”, “Hai finito di…” o “Ne ho abbastanza di…” che mettono il bambini in una condizione di subordinazione. Come nasce il bullismo domestico Generalmente, la maggior parte dei genitori che “bullizza” i propri figli sta replicando un copione appreso in famiglia. Oppure, magari, essendo essi stessi vittime di qualcun altro, lo sminuire i propri figli, anche se inconsciamente, li aiuta a riguadagnare potere. I bulli, in quest’ultimo caso, possono essere un partner, un familiare, un collega o il capo. Anche i figli possono bullizzare i genitori: la miccia è sempre la debolezza e alcuni bambini “usano” i genitori per cercare di guadagnare qualche tipo di potere. Sappiamo come I bambini sono straordinariamente abili nell’individuare i punti deboli dei genitori, riescono a premere i bottoni giusti, innescando una reazione a catena. Le soluzioni possibili il bullismo domestico è pericoloso: “Perché se i bambini lo introiettano come mezzo di gestione dei conflitti, è molto probabile che lo utilizzino a scuola e con gli amici”. Il bullismo dei genitori, inoltre, impatta anche sulla salute fisica e sul benessere psicologico: “Sì, perché i bambini bullizzati hanno difficoltà nelle relazioni interpersonali, in quanto tendono a essere più sospettosi. Inoltre, si mettono in gioco di meno, perché temono il fallimento e possono arrivare ad avere comportamenti autolesionistici e di dipendenza” . Inoltre i comportamenti aggressivi possono minare la sicurezza dei bambini ed agire negativamente sulla loro autostima. “Perdere la pazienza succede a tutti, ma il bullismo è reiterato e deliberato. Se capita una volta, non c’è di che preoccuparsi", rassicura Ronit. "Ma è determinante rendersi conto del proprio stile di comunicazione ed educativo. Il problema si può affrontare con tecniche di gestione dello stress o, se questo non fosse sufficiente, chiedendo aiuto a uno specialista”. Il miglior antagonista del bullismo, infatti, è la fiducia nelle proprie capacità di genitore: “Stabilire le regole e i confini regala sicurezza e fa sì che i bambini siano più cooperativi e vengano meno la necessità della disciplina, delle punizioni e delle minacce”, conclude l’esperta
Autore: Andrea Veronesi 13 ott, 2020
“Mio figlio ha una certificazione di Disturbo specifico d’apprendimento da tre anni. Per arrivare ad averla abbiamo dovuto attendere parecchio tempo e recarci molte volte alla Azienda Ospedaliera di zona. Ora è alla fine della terza media e la scuola mi ha chiesto di rinnovare la certificazione. Pensavo che, una volta fatta la certificazione non ci fosse bisogno di rinnovarla, anche perché mi è stato spiegato con molta chiarezza, quando è stata fatta la restituzione della diagnosi, che il disturbo specifico di apprendimento è un problema neurobiologico e quindi non è eliminabile. Ho guardato sulla copia della certificazione che ho a casa e c’è scritto: “La presente diagnosi è valida fino al termine del percorso scolastico” ! Mi chiedo: ma perché mi si chiede di rifare la certificazione?” Questa domanda, che spesso ci si sente fare da un genitore, è più che legittima, anche perché il rinnovo della certificazione fa prevedere nuove tribolazioni a reperire un appuntamento presso la ASL o ad affrontare spese non piccole presso un centro privato autorizzato dalla ASL. Tuttavia il rinnovo della certificazione che è richiesto esplicitamente dalla legge 170 che ha riconosciuto i DSA, ha una motivazione importante. Cerchiamo di capire insieme qual è il motivo del rinnovo della certificazione e a che cosa serve. Sulla certificazione compare la scritta (o per lo meno dovrebbe comparire) “La presente diagnosi è valida fino al termine del percorso scolastico”, ma facendo attenzione ai termini si noterà che si parla di “diagnosi” cioè dell’esito finale dell’indagine che ha portato a dire ufficialmente che lo studente X presenta un DSA. Rinnovare la certificazione non significherà mettere in dubbio la validità della diagnosi, ma solamente andare a misurare se le abilità in un determinato ambito (lettura o scrittura o calcolo) sono cambiate: sono migliorate o compensate, oppure, per l’aumento del carico di lavoro e della sua complessità sono diventate più deboli. Come tutti i genitori sanno il Piano Didattico Personalizzato è un documento che la Scuola, frequentata dallo studente certificato DSA, è obbligata a redigere e a condividere con genitori dello studente. Questo Pdp deve essere compilato sulla base delle abilità e delle difficoltà dello studente che sono emerse dall’osservazione compiuta dagli insegnanti e dalle risultanze della certificazione (dati delle prove effettuate, indicazioni per le misure dispensative e strumenti compensativi, osservazioni e indicazione fornite dallo specialista che certifica). Ecco allora che eventuali cambiamenti, in meglio o in peggio, delle abilità di apprendimento dello studente, implicano un cambiamento nel Pdp che deve essere adeguato alle nuove abilità o alle nuove difficoltà evidenziate dallo studente. Queste novità sono segnalate da una nuova valutazione, e quindi una certificazione rinnovata. Per consuetudine viene richiesto un adeguamento della certificazione al cambio del ciclo scolastico oppure circa ogni tre anni, un tempo che si ritiene adeguato per individuare dei cambiamenti significativi nelle abilità di apprendimento. In conclusione il rinnovo della certificazione serve alla scuola per aggiornare il Piano didattico Personalizzato dello studente, ed è quindi una verifica utile. Infine è utile sottolineare che il rinnovo della certificazione può anche essere un momento importante per lo studente che può capire, dati alla mano, se ha compiuto dei passi in avanti oppure quali sono le sue difficoltà in quel momento. E questo può rappresentare uno stimolo per la prosecuzione del cammino scolastico. Dott. Andrea Veronesi
La difficoltà di lettura, scrittura o calcolo
Autore: Andrea Veronesi 08 ott, 2020
Il percorso di valutazione di un disturbo di apprendimento richiede una serie di passaggi e l'intervento di più specialisti (psicologo, neuropsichiatra, logopedista). Il costo della certificazione quindi è alto. Presso il nostro Studio è possibile fare una valutazione preliminare che può dirci se ci sono disturbi di apprendimento o no. Il costo è di € 51,00.
Problemi di autostima
Autore: Dott.ssa Sara Passoni 06 ott, 2020
L'idea di avere una bassa autostima può attivare un meccanismo per cui ci si sente in colpa e con poche capacità.
Autore: Andrea Veronesi 18 giu, 2020
Impatto psicologico del lockdown su bambini, studio del Gaslini: ‘Ansia e regressione per 6 minori su 10. Malessere legato a quello dei genitori’ L’indagine sull’impatto psicologico della pandemia nelle famiglie, promossa dall’Irccs Gaslini di Genova e guidata dal neurologo Lino Nobili, mostra come i più piccoli abbiano risentito dell'emergenza: problematiche comportamentali, disturbi del sonno o mancanza d'aria sono alcuni dei sintomi, spesso legati al malessere dei genitori. La sottosegretaria alla Salute Zampa: "Non poter andare a scuola, non poter correre o giocare in un parco li ha certamente penalizzati” Problemi comportamentali, sintomi di regressione, irritabilità, disturbi del sonno e d’ansia. Sono solo alcuni degli effetti riscontrati nei bambini e nei ragazzi italiani durante il lockdown e rilevati da un’indagine sull’impatto psicologico della pandemia nelle famiglie promossa dall’Irccs Giannina Gaslini di Genova e guidata dal neurologo Lino Nobili, che dirige il dipartimento di Neuropsichiatria infantile dell’istituto. Perché se i più piccoli sembrano essere meno vulnerabili agli effetti sistemici del Covid-19, nonostante sia i dati divulgati dall’American Academy of Pediatrics (AAP) che la stessa esperienza del Gaslini suggeriscano un aumento di patologie sistemiche autoinfiammatorie (quali la sindrome di Kawasaki nei bambini più piccoli), tutt’altra storia è quella della qualità della vita e dell’equilibrio emotivo di bambini e adolescenti, che hanno risentito eccome dell’emergenza. “Sono loro quelli che hanno pagato un prezzo particolarmente alto durante il lockdown. Non poter andare a scuola, non poter vedere le proprie maestre e i propri compagni di classe, non poter correre e giocare in un parco con i propri amici li ha certamente penalizzati”, ha spiegato la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa, nel corso della conferenza di presentazione dell’indagine, sottolineando come oggi sia necessario “fare in modo che alla fine di un’esperienza che ricorderanno per tutta la vita, si sentano più forti e sicuri, consapevoli che si può combattere e vincere anche una battaglia difficilissima come quella che abbiamo condiviso contro il coronavirus”. L’INDAGINE – Sin dalle prime fasi della pandemia l’Istituto Gaslini ha attuato un programma di monitoraggio e di intervento dedicato al supporto della popolazione pediatrica e delle loro famiglie. Oltre ad alcune misure di sostegno (colloqui e video colloqui in via telematica) è stato avviato un sondaggio svolto a circa tre settimane di distanza dal lockdown, mediante la piattaforma Google Form, in forma anonima. In due settimane hanno aderito 6.800 cittadini da tutta Italia, di cui quasi la metà (3.245) con figli minorenni a carico. Il 64,7% delle persone che ha compilato il campione è di sesso femminile, con un età media che si colloca nella fascia dei 40-45 anni. GLI EFFETTI SUI BAMBINI E I RAGAZZI – Dall’analisi è emerso che nel 65% e nel 71% dei bambini con età rispettivamente minore o maggiore di 6 anni sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione. Per quel che riguarda i bambini al di sotto dei sei anni, i disturbi più frequenti sono stati l’aumento dell’irritabilità, disturbi del sonno e disturbi d’ansia (inquietudine, ansia da separazione). Nei bambini e adolescenti (età 6-18 anni) gli effetti più frequenti sono stati i disturbi d’ansia e la sensazione di mancanza d’aria, ma anche i disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi e a svegliarsi per iniziare le lezioni per via telematica a casa). In particolare, proprio in questa fascia di età è stata osservata una significativa alterazione del ritmo del sonno con tendenza al cosiddetto ‘ritardo di fase’ (adolescenti che vanno a letto molto più tardi e non riescono a svegliarsi al mattino), come in una sorta di ‘jet lag’ domestico. Tra questi ragazzi è stata riscontrata più frequentemente anche una maggiore instabilità emotiva con irritabilità e cambiamenti del tono dell’umore. QUEL LEGAME CON IL MALESSERE DEI GENITORI – Il livello di gravità dei comportamenti disfunzionali dei bambini e degli adolescenti è legato statisticamente (e in modo significativo) al grado di malessere con cui i loro genitori hanno vissuto il lockdown. All’aumentare di sintomi o comportamenti di stress nei genitori (disturbi d’ansia, dell’umore, disturbi del sonno, consumo di farmaci ansiolitici e ipnotici), i dati hanno mostrato un aumento dei disturbi comportamentali e della sfera emotiva nei bambini e negli adolescenti, “indipendentemente dalla pregressa presenza di disturbi della sfera psichica nei genitori”, spiega l’indagine. Anche se i disturbi della sfera emozionale dei genitori, conseguenti alla particolare situazione dovuta alla pandemia, sono risultati molto più accentuati “nel caso di pregresse problematiche di natura psichica”. Il malessere dei genitori, inoltre, “è risultato significativamente più frequente e intenso nella famiglie al cui interno ci sono sia persone anziane che bambini”. “Aver messo in atto dei percorsi di supporto psicologico e neuropsichiatrico alle famiglie e ai bambini, come è stato fatto dal nostro Istituto – ha spiegato il team che ha condotto la ricerca – non solo ha fornito un aiuto nella fase acuta, ma potrebbe ridurre i rischi di sintomalogie post-traumatiche perduranti nel tempo”. Da “Il Fatto Quotidiano” Luisiana Gaita | 16 GIUGNO 2020
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